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scarti e metamorfosi

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Monthly Archives: December 2015

GIANNA MANZINI (Animalità e altre parole, 2/6)

03 Thursday Dec 2015

Posted by claudiapatuzzi in animalità e altre parole

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animalità e altre parole, Gianna Manzini, la sparviera, Leggendaria, ritratto in piedi, Sulla soglia

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Gianna Manzini, Firenze : « Del mio viso, sapevo ormai qualcosa: che il suo smarrimento e la sua ansietà confondono un ardore malaticcio; che sono stata io a rendermene più pungenti i tratti, consumandoli a furia di emozione; che il volto necessario, corrente, si è lasciato via via sostituire da quello troppo privato, inservibile, incessantemente ritoccato e corretto dall’anima. Cara prigione. » Photo Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, p.42, in Scrittrici e intellettuali del Novecento.  (cliccare la foto per ingrandire)

L’ANIMALE come pensiero filosofico e primordiale

Marguerite Yourcenar non è l’unica scrittrice a partecipare con evidente immedesimazione alla sorte delle « creature » della terra dando voce al linguaggio del corpo e della carne. Anche la toscana Gianna Manzini (Pistoia 1986 – Roma 1974) è commossa dal mistero e dall’innocenza animale come se fosse un « barlume superstite dell’antico giardino » dell’Eden. Nel suo Bestiario (1960), nel precedente Animali sacri e profani (1953) e nei suoi romanzi, la vita animale è una presenza reale e al tempo stesso emblematica, « una sua preistoria stravagante » mischiata di « quel senso della carne », – istinto, malattia, ebbrezza, dolore, morte – un « controcanto analogico » della vita umana, veicolo del mistero e di uno « speciale silenzio » carico di fatalità e di significati non detti, pregni di parole antiche, dense di movimenti, odori, cose e sensazioni.

Nella scrittrice pistoiese gli animali – sono compagni di viaggio nel presente e nella morte; oggetto di immedesimazione e di pietas ; nostalgia di un’intesa sacrale, « profanata » dal mondo crudele e indifferente dell’uomo che ne viola l’innocenza e ne sgozza o manipola il corpo insieme alla natura. Ecco allora l’immagine dei malinconici capponi castrati, inventati dall’uomo, « invenzione antica e contadinesca », a cui, per la Manzini, “se ne sovrappone una moderna, scientifica , cittadina : un animale nuovo di zecca, un cappone più ardito d’un gallo, d’una bellezza veemente, con una cresta battagliera… fra i capponi-capponi, ed i capponi « ultrarigenerati », c’è di mezzo il propinato di testosterone e la vitamina E, la vitamina della fecondità…”. Oppure l’immagine patetica e ridicola di un pero nano deformato dalla mano dell’uomo: “con una stampella per ogni ramo e un sacchetto di carta trasparente per ogni frutto, pareva un riccone ammalato o, allorché il sole era scomparso, un ragno mostruoso, oppure… uno di quei bambini che reggon male il testone, traballanti nella cesta di vimini…”.

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La Sparviera, « una delle pochissime opere di cui ha bisogno la gente di domani.» Oscar Mondadori, Milano,1956.  (cliccare sulla foto per ingrandirla)

In “La Sparviera” il titolo stesso è un’allegoria dell’ostinata tosse bronchiale che opprime fin dall’infanzia il protagonista del romanzo : una “rivale” e una “compagna assidua” che lo spinge sempre più a sfidare la vita fino alla morte. Un emblema del volto avverso della morte-destino a cui, prima o poi, ci si deve arrendere.
Gli aggettivi di questa immanente e impalpabile presenza ricordano la simbologia misteriosa che aleggia attorno a quel nome “arcaico” di « rapace » in un crescendo spietato : volante, spavalda, un peso, un brivido che “si avventava alle spalle” , “entrava sotto le lenzuola, lo scuoteva”, “apriva le dita come un pettine, se le metteva davanti, sbarrando gli occhi. Era qualcosa di tenace e vibratile che ha uno strano potere di insinuarsi… Nodo di nodi. Ammiccava nel fumo. Si snodava, si agitava, diventava prima alta, poi larga; e, mutata in uno straccio di fumo, l’avviluppava. Era ghiaccia e calda. A volte si faceva piccolissima. Si nascondeva in una briciola di pane, in un grano di riso, in un chicco d’uva… »

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(cliccare sulla foto per ingrandirla)

Ritratto in piedi (Oscar Mondadori, Milano,1971) inizia con una forte analogia tra la scrittrice e il cavallo da piazza, a Firenze, che scalpita e non vuole più attraversare il ponte di Santa Trinita: «S’impuntava; schiumava; impazziva… E soltanto su quel ponte. Nessuno sapeva spiegarsi la cosa…. Che avrà visto, a metà dell’arcata del ponte? Quale ricordo, quale spettro sarà insorto a bloccarlo?… Il tempo è un sogno, specie per un cavallo… Ebbene in certi momenti, mentre mi provo a scrivere la vita del babbo, sono anch’io quel cavallo, a metà dell’arcata del ponte. M’impenno. Non vado avanti. Addirittura torno indietro…”; “lui”, il cavallo, “è un congegno di nervi e di rapporti, e di legami e di poteri ultra-umani. Che gara assurda sarebbe la mia. Eppure, io ho a che fare con quel cavallo. Udire, vedere: una collisione, sia pure irresistibile, in un sovrapporsi di tempi: lastre trasparenti di tempi, anni, lustri, decenni, connesse in un presente assoluto. Col fiato mozzo, provo, riprovo. Voglio una franca paura, una decifrabile paura; o una insostenibile pietà, o una decisa vergogna. In “Sulla soglia” – Mondadori, Milano,1973 – c’è un racconto molto poetico intitolato “Una quieta voragine”: il protagonista è quel luogo « di tutti e nessuno, incerto e nebbioso » – il confine tra la vita e la morte, il tutto e il niente – un incessante duello dove l’umano e il non umano coesistono e si confondono in un’identica sorte e destino ineluttabile. Ne è protagonista la femmina di un passero, una madre con il suo compagno, che assiste impietrita alla morte di un motociclista, – « massa scura, mostruosamente estranea » – incagliata su un abete che copre col suo corpo il nido con tutta la covata provocando la morte lenta e ineluttabile dei passeretti o, meglio, i suoi piccolini … Mentre una nera scia di formiche, moscerini e mosconi preparano l’assedio, la madre-uccello segue la scena con « occhio vigile e dilatato, aperto, netto, anzi, più che aperto, sbarrato, e nudo, nero, tondo, feroce… son qui, son qui… », mentre il passero si ferma accanto alla compagna: « Uguale in tutti e due il silenzio. Identica la concentrazione atterrita al cospetto della schiera nera che aumenta con incredibile rapidità ». La passeretta continua a seguire la scena, istante per istante, fino alla fine, per poi scegliere il volo e la futura vita insieme al suo compagno: « Vita; immensa infinita plenitudine, impalpabile, inconoscibile, dilettosa armonia di dolore e di dolcezza. Canto. Il nostro canto. Così densa, così ricca, disorienta, sembra altra cosa da ciò che è in me, in noi. – Vieni… è breve la vita di un passero. Vieni. – Lei gli teneva ormai dietro, fiduciosa, con un bel volo regolare ».

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Foto con dedica ad Arnoldo Mondadori ( cliccare sulla foto per ingrandire )

Claudia Patuzzi

Articolo apparso nella rivista « Leggendaria » N° 77-78, Roma, novembre 2009

 

MARGUERITE YOURCENAR (Animalità e altre parole, 1/6)

01 Tuesday Dec 2015

Posted by claudiapatuzzi in animalità e altre parole, articoli, saggi

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animalità e altre parole, Care memorie, il parto, italo calvino, la mucca, letteratura femminile, lettere ai contemporanei, Marguerite Yourcenar

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(cliccare sull’immagine per ingrandirla)

Il tema dell’animalità nella scrittura delle donne : un percorso di lettura attraverso alcuni testi emblematici a partire dal Novecento…

Da sempre gli animali sono stati e sono ancora i grandi mediatori tra l’uomo e il mistero dell’universo, accompagnando e veicolando l’ indicibile, a volte troppo oscuro e orribile per essere compreso. Ci vorrebbero interi volumi per parlare delle diverse “interpretazioni” dell’animalità da parte di innumerevoli testi, rischiando di disperderci in mille rivoli. Ho pensato dunque di cominciare da un ambito più ristretto, quello dell’animalità al femminile, attraverso un percorso di lettura basato su alcuni testi emblematici del Novecento.

Se da una parte le donne, – legate biologicamente al ciclo del sangue e della riproduzione – hanno il potere di “comunicare” in modo più immediato con la natura e la condizione animale, dall’altra sembrano muoversi più liberamente oltre la « banale ma coriacea crosta del visibile » (Italo Calvino) con un linguaggio in grado di resistere alla mercificazione attuata dal crescente dominio “dell’irrealtà” (nel senso inteso da Elsa Morante) : un linguaggio metamorfico che la scrittrice Antonia S. Byatt ha definito con la metafora della “foresta-giardino” in rapporto con “l’occhio della mente” in cui “il sottobosco scricchiola” ogni qual volta si presta voce alla Bestia e/o al desiderio-dolore fuori di noi e dentro di noi. In cerca di “parole diverse” mi sono quindi avvicinata ad alcune autrici – Marguerite Yourcenar, Gianna Manzini, Anna Maria Ortese, Piera Mattei,  Elsa Morante e Antonia S.Byatt – che danno particolare rilievo all’animalità, sperimentando nuovi linguaggi che vanno e vengono tra vita vissuta e vita immaginaria, tra parola e pagina scritta, tra scrittura e realtà, ragione e emozioni, corpo e desiderio/ intelletto…

« Marguerite Yourcenar : il recupero sociale e culturale dell’animalità »

In Marguerite Yourcenar il « diverso » in particolare l’animale come realtà biologica, è spesso collegato alla morte o alla cieca e spesso gratuita crudeltà umana, in un’epoca in cui « gli dei verdi » e l’uomo hanno ormai del tutto dimenticato il primordiale e reciproco rapporto di armonia. Il primo animale nominato in “Care memorie” appare all’inizio della narrazione, nel capitolo intitolato “Il parto”, nel momento in cui la neonata – un “pezzetto di carne rosea piangente… coperta di una peluria nera simile al pelo di un topo” – « succhia quasi selvaggiamente » il latte tra «lenzuola sporche di sangue ed escrementi ». La violenza espressiva che connota quella minuscola « creatura » richiama, attraverso il biancore inamidato delle lenzuola e il rosso vivo del sangue, la parentela prossima con tutte le specie animali. Marguerite non lascia dubbi sull’unione primordiale e cosmica delle creature quando scrive: “la neonata gridava a pieni polmoni, provando le sue forze, manifestando già quella vitalità quasi terribile di cui è dotato ogni essere, perfino il moscerino che i più ammazzano con un manrovescio senza darsene pensiero…; essa grida l’orrore di essere stata espulsa dal grembo materno, il terrore dello stretto tunnel…”; e conclude: “quella bambina vecchia di un’ora è (…) già presa nella realtà della sofferenza animale e del dolore umano”. (1)

Il giudizio della Yourcenar sulle donne/creature è spiegato in modo forse provocatorio in una lettera del 1968 alla romanziera Helen Howe Allen (2), in un’epoca che assiste ai primi incerti albori di un movimento di pensiero alternativo rispetto allo standard borghese : “Perché le donne si richiudono nel loro piccolo mondo ristretto, pretenzioso e povero? (penso alla frase che faccio pronunciare a Adriano: “Ritrovavo la visuale limitata delle donne, il loro duro senso pratico, il loro cielo grigio non appena cessa di ridervi l’amore”). Non voglio sostenere che l’uomo possieda tutte le virtù: il mondo in rovina nel quale viviamo è la riprova del contrario. Ma penso che in parte è al miserabile piccolo egoismo della signora per bene che profuma di lavanda e si concede una vita ‘armoniosa’ che noi dobbiamo la continuazione e la crescita del caos. Per quanto mi riguarda (…) mi stupirò fino alla fine dei miei giorni che creature le quali per la loro costituzione e la loro funzione dovrebbero assomigliare alla terra stessa, che partoriscono tra deiezioni e sangue, che le mestruazioni legano al ciclo lunare e al mistero stesso del flusso sanguigno, che portano come docili vacche un alimento primordiale nelle loro ghiandole mammarie, che cucinano, ovvero che lavorano sulla carne morta e sui legumi ancora sporchi di terra, che infine, nei loro corpi, nel loro viso, nella loro disperata lotta contro l’età, assistono perennemente alla lenta distruzione e corruzione delle forme, affrontano giorno dopo giorno la morte nelle rughe che si accentuano o nei capelli che ingrigiscono, possano essere a tal punto false. False nel caso della bambola truccatissima che vuol sedurre usando gli stessi sistemi della prostituzione, a qualunque ceto appartenga, e forse più false ancora quando si tratta della signora per bene? Si cerca invano la donna…”(2 ).

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 La giovane Marguerite (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Ma torniamo alla narrazione di Care memorie in cui l’autrice, dopo la descrizione del parto, prende spunto da un semplice ninnolo sacro di avorio, una croce ornata di una testa di angioletto, «  per passare subito alla descrizione di un elefante “ucciso nelle foreste del Congo, le cui zanne sono state vendute a basso prezzo dagli indigeni a qualche mercante belga”. Poi aggiunge: “Quella grande massa di vita intelligente, discendente di una dinastia che risale almeno all’inizio del Pleistocene, è approdata qui. Un animale che ha brucato l’erba e bevuto l’acqua dei fiumi, che si è bagnato nella buona melma tiepida, che si è servito di quell’avorio per combattere un rivale o per tentare di difendersi dagli attacchi dell’uomo, che ha accarezzato con la sua proboscide la femmina con la quale si accoppiava. L’artista che ha lavorato quel materiale non ha saputo ricavarne altro che un oggetto bigotto di lusso”. (3)

Ma basta che “il latte calmi le urla della piccola”, perché un altro animale, estremamente pacifico e familiare, appaia ancora come “compagno di viaggio” sulla scena del parto – la mucca – “una bestia-nutrice, simbolo della terra feconda, che dà agli uomini non soltanto il suo latte, ma più tardi, quando le sue mammelle saranno definitivamente esaurite, la sua magra carne e infine il suo cuoio, i suoi tendini e le sue ossa con le quali si farà la colla e il nero animale. Strappata ai suoi parti morirà di una morte quasi sempre atroce, dopo un lungo viaggio nel vagone bestiame che la sballotterà verso il macello, spesso pesta, assetata, in ogni caso terrorizzata da quelle scosse… Oppure sarà spinta in pieno sole, lungo una strada … talvolta accecata, consegnata nelle mani di carnefici incattiviti dal loro spregevole mestiere, i quali forse cominceranno a squartarla non ancora morta del tutto. Perfino il suo nome, che dovrebbe essere sacro a coloro che essa nutre, in francese suona ridicolo…”. (4)

In un’altra lettera diretta alla poetessa e romanziera Lise Deharme, l’opinione di Marguerite sul comportamento degli abitanti della sua isola di Mont Desert verso gli animali è di un pessimismo lapidario: “cacciano nel parco nazionale e nella riserva servendosi del semplice espediente di appostarsi in automobile al limitare del bosco con i fari accesi, per poi massacrare in tutta tranquillità i cervi attirati dalle luci … L’uomo ha poche speranze di smettere di seviziare l’uomo, finché continuerà a imparare sugli animali il proprio mestiere di carnefice…” (5)

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( cliccare sull’immagine per ingrandirla )

(1) Care Memorie, Einaudi Tascabili, 1991, pp.5, 22

(2) Lettere ai contemporanei, 7 agosto 1957 e 24 febbraio 1968, Giulio Einaudi editore, 1995, pp.151-53

(3) Care memorie, Edizioni Einaudi Tascabili, 1981, 1992, p.23

(4) Idem, p.25

(5) Lettere ai contemporanei, 7 agosto 1957 e 24 febbraio 1968, Giulio Einaudi editore, 1995, pp.151-53, pp 61-62.

Claudia Patuzzi  

Articolo apparso nella rivista « Leggendaria » (libri letture linguaggi), N° 77-78, Roma, novembre 2009.

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