Dove hanno messo la luna ? (Buffe storie – Disegni)

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Dove hanno messo la luna ?

– Che hai? Ti senti male? Che stai guardando fuori della finestra? È notte…
– Niente d’importante… Te ne sei accorta ?
– Di che ?
– Ho sognato che la Luna s’incastrava tra i due palazzi di fronte…
– Quale Luna ?
– Come “quale Luna”,quella che sta in cielo !
– E allora?
– Non capisci ?
– Capisco solo che stai invecchiando e vaneggi… Io devo sparecchiare la tavola e tu hai dimenticato di prendere
Il gerontovital e la pasticca contro i tuoi incubi…
– È vero… ecco, le ho prese, vedi come sono bravo ?
– Non sei bravo, sei rincitrullito !
– Rincitrullito o no, stanotte la luna non c’era ! Il cielo era vuoto !
– Forse c’è la luna nuova, forse ti sei sbagliato !
– Ho letto il calendario lunare appeso in cucina, oggi deve esserci la luna piena !
– Ma che te ne importa ?
– Mi importa molto, affacciati !
– Dove ? Tu sei matto, tra poco è giorno. (La donna apre la finestra di malumore). Invece di lasciarmi dormire, mi fai fare delle cose inutili, non fai altro che peggiorare…

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– Guarda !
– Cosa ?
– Davanti a te, in quello spazio stretto tra le due case enormi,di fronte.
– E allora ?
– La luna a quest’ora deve essere là, è sempre stata là in quello spicchio di cielo…
– Be’ adesso non c’è, si vede che si è spostata.
– Ma la luna non può spostarsi dove gli pare…, è impossibile.
Senza la luna manca la poesia ! Guarda : la luna si è incastrata nel fondo, tra le due case ! Ecco perché il cielo era vuoto…
– ma dimmi un pò una cosa : ma che ti importa, vecchio e brutto come sei di queste stupidaggini ! Tu vaneggi ! (Chiude la finestra e apre la televisione )
Il marito si nasconde la faccia e si siede sul divano, poi alza la testa, gli occhi lucidi..
– (sussurrando) Senza la luna il cielo sarà sempre buio, anche se ci saranno le stelle… è la poesia che fine farà ?
– Uffa, se vuoi ti faccio un caffè.
– Un caffè a quest’ora ?
– E chi dorme più ormai ?

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Claudia Patuzzi

P.S. La poesia e il mondo d’oggi non vanno d’accordo !

GIANNA MANZINI (Animalità e altre parole, 2/6)

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Gianna Manzini, Firenze : « Del mio viso, sapevo ormai qualcosa: che il suo smarrimento e la sua ansietà confondono un ardore malaticcio; che sono stata io a rendermene più pungenti i tratti, consumandoli a furia di emozione; che il volto necessario, corrente, si è lasciato via via sostituire da quello troppo privato, inservibile, incessantemente ritoccato e corretto dall’anima. Cara prigione. » Photo Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, p.42, in Scrittrici e intellettuali del Novecento.  (cliccare la foto per ingrandire)

L’ANIMALE come pensiero filosofico e primordiale

Marguerite Yourcenar non è l’unica scrittrice a partecipare con evidente immedesimazione alla sorte delle « creature » della terra dando voce al linguaggio del corpo e della carne. Anche la toscana Gianna Manzini (Pistoia 1986 – Roma 1974) è commossa dal mistero e dall’innocenza animale come se fosse un « barlume superstite dell’antico giardino » dell’Eden. Nel suo Bestiario (1960), nel precedente Animali sacri e profani (1953) e nei suoi romanzi, la vita animale è una presenza reale e al tempo stesso emblematica, « una sua preistoria stravagante » mischiata di « quel senso della carne », – istinto, malattia, ebbrezza, dolore, morte – un « controcanto analogico » della vita umana, veicolo del mistero e di uno « speciale silenzio » carico di fatalità e di significati non detti, pregni di parole antiche, dense di movimenti, odori, cose e sensazioni.

Nella scrittrice pistoiese gli animali – sono compagni di viaggio nel presente e nella morte; oggetto di immedesimazione e di pietas ; nostalgia di un’intesa sacrale, « profanata » dal mondo crudele e indifferente dell’uomo che ne viola l’innocenza e ne sgozza o manipola il corpo insieme alla natura. Ecco allora l’immagine dei malinconici capponi castrati, inventati dall’uomo, « invenzione antica e contadinesca », a cui, per la Manzini, “se ne sovrappone una moderna, scientifica , cittadina : un animale nuovo di zecca, un cappone più ardito d’un gallo, d’una bellezza veemente, con una cresta battagliera… fra i capponi-capponi, ed i capponi « ultrarigenerati », c’è di mezzo il propinato di testosterone e la vitamina E, la vitamina della fecondità…”. Oppure l’immagine patetica e ridicola di un pero nano deformato dalla mano dell’uomo: “con una stampella per ogni ramo e un sacchetto di carta trasparente per ogni frutto, pareva un riccone ammalato o, allorché il sole era scomparso, un ragno mostruoso, oppure… uno di quei bambini che reggon male il testone, traballanti nella cesta di vimini…”.

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La Sparviera, « una delle pochissime opere di cui ha bisogno la gente di domani.» Oscar Mondadori, Milano,1956.  (cliccare sulla foto per ingrandirla)

In “La Sparviera” il titolo stesso è un’allegoria dell’ostinata tosse bronchiale che opprime fin dall’infanzia il protagonista del romanzo : una “rivale” e una “compagna assidua” che lo spinge sempre più a sfidare la vita fino alla morte. Un emblema del volto avverso della morte-destino a cui, prima o poi, ci si deve arrendere.
Gli aggettivi di questa immanente e impalpabile presenza ricordano la simbologia misteriosa che aleggia attorno a quel nome “arcaico” di « rapace » in un crescendo spietato : volante, spavalda, un peso, un brivido che “si avventava alle spalle” , “entrava sotto le lenzuola, lo scuoteva”, “apriva le dita come un pettine, se le metteva davanti, sbarrando gli occhi. Era qualcosa di tenace e vibratile che ha uno strano potere di insinuarsi… Nodo di nodi. Ammiccava nel fumo. Si snodava, si agitava, diventava prima alta, poi larga; e, mutata in uno straccio di fumo, l’avviluppava. Era ghiaccia e calda. A volte si faceva piccolissima. Si nascondeva in una briciola di pane, in un grano di riso, in un chicco d’uva… »

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Ritratto in piedi (Oscar Mondadori, Milano,1971) inizia con una forte analogia tra la scrittrice e il cavallo da piazza, a Firenze, che scalpita e non vuole più attraversare il ponte di Santa Trinita: «S’impuntava; schiumava; impazziva… E soltanto su quel ponte. Nessuno sapeva spiegarsi la cosa…. Che avrà visto, a metà dell’arcata del ponte? Quale ricordo, quale spettro sarà insorto a bloccarlo?… Il tempo è un sogno, specie per un cavallo… Ebbene in certi momenti, mentre mi provo a scrivere la vita del babbo, sono anch’io quel cavallo, a metà dell’arcata del ponte. M’impenno. Non vado avanti. Addirittura torno indietro…”; “lui”, il cavallo, “è un congegno di nervi e di rapporti, e di legami e di poteri ultra-umani. Che gara assurda sarebbe la mia. Eppure, io ho a che fare con quel cavallo. Udire, vedere: una collisione, sia pure irresistibile, in un sovrapporsi di tempi: lastre trasparenti di tempi, anni, lustri, decenni, connesse in un presente assoluto. Col fiato mozzo, provo, riprovo. Voglio una franca paura, una decifrabile paura; o una insostenibile pietà, o una decisa vergogna. In “Sulla soglia” – Mondadori, Milano,1973 – c’è un racconto molto poetico intitolato “Una quieta voragine”: il protagonista è quel luogo « di tutti e nessuno, incerto e nebbioso » – il confine tra la vita e la morte, il tutto e il niente – un incessante duello dove l’umano e il non umano coesistono e si confondono in un’identica sorte e destino ineluttabile. Ne è protagonista la femmina di un passero, una madre con il suo compagno, che assiste impietrita alla morte di un motociclista, – « massa scura, mostruosamente estranea » – incagliata su un abete che copre col suo corpo il nido con tutta la covata provocando la morte lenta e ineluttabile dei passeretti o, meglio, i suoi piccolini … Mentre una nera scia di formiche, moscerini e mosconi preparano l’assedio, la madre-uccello segue la scena con « occhio vigile e dilatato, aperto, netto, anzi, più che aperto, sbarrato, e nudo, nero, tondo, feroce… son qui, son qui… », mentre il passero si ferma accanto alla compagna: « Uguale in tutti e due il silenzio. Identica la concentrazione atterrita al cospetto della schiera nera che aumenta con incredibile rapidità ». La passeretta continua a seguire la scena, istante per istante, fino alla fine, per poi scegliere il volo e la futura vita insieme al suo compagno: « Vita; immensa infinita plenitudine, impalpabile, inconoscibile, dilettosa armonia di dolore e di dolcezza. Canto. Il nostro canto. Così densa, così ricca, disorienta, sembra altra cosa da ciò che è in me, in noi. – Vieni… è breve la vita di un passero. Vieni. – Lei gli teneva ormai dietro, fiduciosa, con un bel volo regolare ».

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Foto con dedica ad Arnoldo Mondadori ( cliccare sulla foto per ingrandire )

Claudia Patuzzi

Articolo apparso nella rivista « Leggendaria » N° 77-78, Roma, novembre 2009

 

MARGUERITE YOURCENAR (Animalità e altre parole, 1/6)

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Il tema dell’animalità nella scrittura delle donne : un percorso di lettura attraverso alcuni testi emblematici a partire dal Novecento…

Da sempre gli animali sono stati e sono ancora i grandi mediatori tra l’uomo e il mistero dell’universo, accompagnando e veicolando l’ indicibile, a volte troppo oscuro e orribile per essere compreso. Ci vorrebbero interi volumi per parlare delle diverse “interpretazioni” dell’animalità da parte di innumerevoli testi, rischiando di disperderci in mille rivoli. Ho pensato dunque di cominciare da un ambito più ristretto, quello dell’animalità al femminile, attraverso un percorso di lettura basato su alcuni testi emblematici del Novecento.

Se da una parte le donne, – legate biologicamente al ciclo del sangue e della riproduzione – hanno il potere di “comunicare” in modo più immediato con la natura e la condizione animale, dall’altra sembrano muoversi più liberamente oltre la « banale ma coriacea crosta del visibile » (Italo Calvino) con un linguaggio in grado di resistere alla mercificazione attuata dal crescente dominio “dell’irrealtà” (nel senso inteso da Elsa Morante) : un linguaggio metamorfico che la scrittrice Antonia S. Byatt ha definito con la metafora della “foresta-giardino” in rapporto con “l’occhio della mente” in cui “il sottobosco scricchiola” ogni qual volta si presta voce alla Bestia e/o al desiderio-dolore fuori di noi e dentro di noi. In cerca di “parole diverse” mi sono quindi avvicinata ad alcune autrici – Marguerite Yourcenar, Gianna Manzini, Anna Maria Ortese, Piera Mattei,  Elsa Morante e Antonia S.Byatt – che danno particolare rilievo all’animalità, sperimentando nuovi linguaggi che vanno e vengono tra vita vissuta e vita immaginaria, tra parola e pagina scritta, tra scrittura e realtà, ragione e emozioni, corpo e desiderio/ intelletto…

« Marguerite Yourcenar : il recupero sociale e culturale dell’animalità »

In Marguerite Yourcenar il « diverso » in particolare l’animale come realtà biologica, è spesso collegato alla morte o alla cieca e spesso gratuita crudeltà umana, in un’epoca in cui « gli dei verdi » e l’uomo hanno ormai del tutto dimenticato il primordiale e reciproco rapporto di armonia. Il primo animale nominato in “Care memorie” appare all’inizio della narrazione, nel capitolo intitolato “Il parto”, nel momento in cui la neonata – un “pezzetto di carne rosea piangente… coperta di una peluria nera simile al pelo di un topo” – « succhia quasi selvaggiamente » il latte tra «lenzuola sporche di sangue ed escrementi ». La violenza espressiva che connota quella minuscola « creatura » richiama, attraverso il biancore inamidato delle lenzuola e il rosso vivo del sangue, la parentela prossima con tutte le specie animali. Marguerite non lascia dubbi sull’unione primordiale e cosmica delle creature quando scrive: “la neonata gridava a pieni polmoni, provando le sue forze, manifestando già quella vitalità quasi terribile di cui è dotato ogni essere, perfino il moscerino che i più ammazzano con un manrovescio senza darsene pensiero…; essa grida l’orrore di essere stata espulsa dal grembo materno, il terrore dello stretto tunnel…”; e conclude: “quella bambina vecchia di un’ora è (…) già presa nella realtà della sofferenza animale e del dolore umano”. (1)

Il giudizio della Yourcenar sulle donne/creature è spiegato in modo forse provocatorio in una lettera del 1968 alla romanziera Helen Howe Allen (2), in un’epoca che assiste ai primi incerti albori di un movimento di pensiero alternativo rispetto allo standard borghese : “Perché le donne si richiudono nel loro piccolo mondo ristretto, pretenzioso e povero? (penso alla frase che faccio pronunciare a Adriano: “Ritrovavo la visuale limitata delle donne, il loro duro senso pratico, il loro cielo grigio non appena cessa di ridervi l’amore”). Non voglio sostenere che l’uomo possieda tutte le virtù: il mondo in rovina nel quale viviamo è la riprova del contrario. Ma penso che in parte è al miserabile piccolo egoismo della signora per bene che profuma di lavanda e si concede una vita ‘armoniosa’ che noi dobbiamo la continuazione e la crescita del caos. Per quanto mi riguarda (…) mi stupirò fino alla fine dei miei giorni che creature le quali per la loro costituzione e la loro funzione dovrebbero assomigliare alla terra stessa, che partoriscono tra deiezioni e sangue, che le mestruazioni legano al ciclo lunare e al mistero stesso del flusso sanguigno, che portano come docili vacche un alimento primordiale nelle loro ghiandole mammarie, che cucinano, ovvero che lavorano sulla carne morta e sui legumi ancora sporchi di terra, che infine, nei loro corpi, nel loro viso, nella loro disperata lotta contro l’età, assistono perennemente alla lenta distruzione e corruzione delle forme, affrontano giorno dopo giorno la morte nelle rughe che si accentuano o nei capelli che ingrigiscono, possano essere a tal punto false. False nel caso della bambola truccatissima che vuol sedurre usando gli stessi sistemi della prostituzione, a qualunque ceto appartenga, e forse più false ancora quando si tratta della signora per bene? Si cerca invano la donna…”(2 ).

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 La giovane Marguerite (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Ma torniamo alla narrazione di Care memorie in cui l’autrice, dopo la descrizione del parto, prende spunto da un semplice ninnolo sacro di avorio, una croce ornata di una testa di angioletto, «  per passare subito alla descrizione di un elefante “ucciso nelle foreste del Congo, le cui zanne sono state vendute a basso prezzo dagli indigeni a qualche mercante belga”. Poi aggiunge: “Quella grande massa di vita intelligente, discendente di una dinastia che risale almeno all’inizio del Pleistocene, è approdata qui. Un animale che ha brucato l’erba e bevuto l’acqua dei fiumi, che si è bagnato nella buona melma tiepida, che si è servito di quell’avorio per combattere un rivale o per tentare di difendersi dagli attacchi dell’uomo, che ha accarezzato con la sua proboscide la femmina con la quale si accoppiava. L’artista che ha lavorato quel materiale non ha saputo ricavarne altro che un oggetto bigotto di lusso”. (3)

Ma basta che “il latte calmi le urla della piccola”, perché un altro animale, estremamente pacifico e familiare, appaia ancora come “compagno di viaggio” sulla scena del parto – la mucca – “una bestia-nutrice, simbolo della terra feconda, che dà agli uomini non soltanto il suo latte, ma più tardi, quando le sue mammelle saranno definitivamente esaurite, la sua magra carne e infine il suo cuoio, i suoi tendini e le sue ossa con le quali si farà la colla e il nero animale. Strappata ai suoi parti morirà di una morte quasi sempre atroce, dopo un lungo viaggio nel vagone bestiame che la sballotterà verso il macello, spesso pesta, assetata, in ogni caso terrorizzata da quelle scosse… Oppure sarà spinta in pieno sole, lungo una strada … talvolta accecata, consegnata nelle mani di carnefici incattiviti dal loro spregevole mestiere, i quali forse cominceranno a squartarla non ancora morta del tutto. Perfino il suo nome, che dovrebbe essere sacro a coloro che essa nutre, in francese suona ridicolo…”. (4)

In un’altra lettera diretta alla poetessa e romanziera Lise Deharme, l’opinione di Marguerite sul comportamento degli abitanti della sua isola di Mont Desert verso gli animali è di un pessimismo lapidario: “cacciano nel parco nazionale e nella riserva servendosi del semplice espediente di appostarsi in automobile al limitare del bosco con i fari accesi, per poi massacrare in tutta tranquillità i cervi attirati dalle luci … L’uomo ha poche speranze di smettere di seviziare l’uomo, finché continuerà a imparare sugli animali il proprio mestiere di carnefice…” (5)

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(1) Care Memorie, Einaudi Tascabili, 1991, pp.5, 22

(2) Lettere ai contemporanei, 7 agosto 1957 e 24 febbraio 1968, Giulio Einaudi editore, 1995, pp.151-53

(3) Care memorie, Edizioni Einaudi Tascabili, 1981, 1992, p.23

(4) Idem, p.25

(5) Lettere ai contemporanei, 7 agosto 1957 e 24 febbraio 1968, Giulio Einaudi editore, 1995, pp.151-53, pp 61-62.

Claudia Patuzzi  

Articolo apparso nella rivista « Leggendaria » (libri letture linguaggi), N° 77-78, Roma, novembre 2009.

L’abbraccio (buffe storie n.14)

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CLAUDIA

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L’abbraccio (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Oggi è stato un « dies signanda albo lapillo» : un giorno da scrivere con il gesso… Stavo uscendo per venire da te, quando ho trovato una busta sotto la porta. Conteneva una nostra vecchia fotografia, scattata da un signore compiacente. Ho subito riconosciuto il tuo profilo, la tua risata, la mia fierezza nello stringerti a me. Ma nella busta c’era un’altra cosa : un foglietto invaso da una calligrafia infantile. Man mano che leggevo quei segni, un suono stridente, simile a un chiavistello, mi lacerava il cuore :
« Ho deciso di restituirti la nostra vecchia fotografia. Finalmente ho trovato il coraggio di dire la verità : sono stufa di un’unione che non cambia mai, di un amore che sembra bloccato in uno specchio : sempre uniti, sempre insieme, l’uno il duplicato dell’altro. Sempre lo stesso luogo, lo stesso appuntamento di anno in anno, alla stessa ora. Mai un cambiamento nel corso delle stagioni e degli anni ! Sempre belli e sorridenti, all’unisono, come due gemelli siamesi ! Sempre lo stesso vestito, gli stessi colori, il nero e il marrone, come i nostri capelli ! I nostri corpi sono ormai diventati un’illusione, un miraggio che non si raggiunge mai… Qualcosa da guardare. Perdonami, ma mi devo assolutamente staccare da te…»

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Rue Faubourg Saint-Martin, Parigi. (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Con queste parole hai disdetto il nostro appuntamento nel solito luogo. Il nostro « nido », accarezzato dallo sguardo invidioso dei passanti. Ma dove sarai in questo momento ? Forse mi resta ancora qualche minuto, prima che tu possa svanire per sempre. Ieri ti ho comprato un foulard azzurro avvolto in un pacchetto e oggi ho solo centoventi secondi per attraversare di corsa rue Faubourg Saint-Martin e afferrare la tua immagine. In una grande città come questa non si può vivere soli : si rischia di morire di disperazione…

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 « Devo correre più forte che posso se voglio riavere il mio unico amore ! » 
Il marciapiede è un tapis-roulant che m’inghiottisce verso il collo a imbuto della strada. Ma c’è qualcosa di strano: la strada non è più la stessa! Il volto di lei  si riflette in fantasmi così trasparenti e diafani da ricordare i sogni… Ecco una specie di fata e un vecchio barbuto vestito d’inverno…
 ma io non mi posso fermare ! Devo continuare a correre…

004_Lei-72-DEFÈ lei ! (cliccare sulla photo per ingrandirla)

Adesso il suo volto spicca in un « carnevale veneziano ». Un neo birichino appiccicato sulla guancia sinistra : una maschera in fuga ! “Stai attento a non scivolare !” mi sussurra mandandomi un bacio.

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Mentre corro i passanti mi guardano con sospetto, si fermano accigliati e, se li strattono, alzano un braccio o urlano : « Fermati disgraziato ! » Forse mi giudicano un pazzo. Uno in particolare, un omone grosso, con grandi occhi a palla, vestito con una maglietta rossa e una giacca verde, a macchie di leopardo, tenta di fermarmi, ma io riesco a scivolare sotto le sue gambe.

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Adesso mi accorgo che tutti gli abitanti della strada hanno stretto un’alleanza : me li trovo di colpo sul marciapiede, furiosi e determinati, come un’armata o una banda organizzata.

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Un  brav’uomo mi salva: i suoi occhi brillano di simpatia, il suo sorriso è bianco e smagliante. Dopo un instante, mi guarda negli occhi e mi dice : « Coraggio! Se la materia grigia fosse rosa nessuno avrebbe più delle idee cupe e noiose ! » poi mi regala un dentifricio.
 “Stai attento a non scivolare !” mi dice agitando la mano.

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Un palazzo liberty svetta verso un cielo blu inossidabile e, per un instante, un filo di speranza mi accarezza il cuore : « Forse sono ancora in tempo, forse lei è ancora là, nel solito posto… » fantastico tra me, mentre riprendo la corsa. “Corri ! Corri ” mi dico facendo scivolare il mio corpo sulla lieve discesa. Una bionda avvolta di sete verdi con movenze da fata mi sussurra : “Rallenta!” Sto già tradendo il mio unico amore con un’altra ninfa più dolce di lei ?

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Quante facce ha la mia bella ? Una nessuna e centomila ! Non le guardare ! Corri, corri !

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La vecchia signora (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Ho svoltato l’angolo tra la Porte Saint Denis e il boulevard, sono quasi arrivato ! Ma una vecchia signora grida : « Ehi ragazzo, fai attenzione a dove metti i piedi ! »

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Finalmente, la vedo ! Mi aspetta fedele, mi vede… io corro, l’abbraccio e l’afferro facendola volare nell’aria come un uccello… Ce l’ho fatta ! Adesso non può più scappare via. La tengo legata a me, stretta in una morsa…

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…ma qualcosa non funziona, la fronte mi si ghiaccia, le braccia della mia donna si inchiodano rigide sulle mie spalle raggelate, un torpore pietrifica le nostre gambe mentre gli arti si appiattiscono sotto il peso di un gigantesco ferro da stiro… fino a fermarci il cuore per sempre !
 Con la complicità « metamorfica »di Ovidio, siamo diventati il luogo del nostro appuntamento. Finalmente tutti possono godere del nostro eterno abbraccio!
– Toh guarda quei due, – dice un tizio di passaggio –  le inventano di belle per abbellire un portone !

Claudia Patuzzi

P.-S. Un pacchetto giace sul marciapiede. Una vecchietta male in arnese lo raccoglie e lo apre, poi accarezza la seta del foulard azzurro. Intorno non c’è nessuno, solo quella strana porta dipinta e una buccia di banana. Il foulard scompare nella borsa della spesa. il suono di una sirena echeggia sul boulevard Saint Denis. Il solito chiasso.

Elisabetta (disegni e caricature n.4)

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« Èlisabeth », olio su tela, cm   (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Cari amici, questa grande tela « troneggia » tra la cucina e la camera dal letto, in fondo al corridoio, dopo Giorgione e Charlot. Tutte le volte che la sfioro, non riesco a evitare lo sguardo della « regina vergine ». Se mi volto di scatto, lei continua a guardare dritto davanti a sè, come se fosse sorpresa da qualcosa. Neanche Giorgione e Charlot riescono ad attirare la sua attenzione. Forse non gradisce l’andirivieni del corridoio. .. Per qualche settimana ha dominato su un caminetto, nella sala da pranzo, ma l’effetto era troppo ridondante : mancava solo il fuoco e un bel bicchier di whisky !

Quando l’ho dipinto ? A Roma, nell 1985, l’anno in cui ero incinta . Sapevo già che si trattava di una femmina. Alcuni mesi prima che nascesse sono stata inspirata da un canovaccio da cucina , comprato a Londra nel 1977, otto anni prima, con stampata l’effigie della regina Elisabetta d’Inghilterra… Solo dopo mi sono accorta di una strana coincidenza : sia Elisabetta, sia mia figlia sono nate nello stesso mese – settembre – a soli dieci giorni di distanza….

P.S. Sono un’accanita masticatrice di mele e la mela dipinta sul mobile è un voluto décalage. Il mobile si trova nella casa di Parigi.

Claudia Patuzzi

La passeggiata (buffe storie n.13)

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Questa mattina, per la prima volta dopo lunghi mesi di reclusione volontaria, sono uscito con passo sicuro e leggero. La mia “chambre de bonne” si trova al dodicesimo piano di un enorme casermone kafkiano nella periferia della città. La mia finestra è  l’unica che abbia le serrande abbassate in pieno giorno. Ormai non ho più né il coraggio, né la voglia di alzarle. Da quando ho perso il lavoro, mi vergogno della luce del sole, che mette a nudo il mio fallimento e le povere cose che mi circondano:  il letto sfatto, il sacco a pelo sporco e stropicciato, gli avanzi galleggianti nel lavello, le mie occhiaie insonni, le scarpe usate e tutto quello che fa di un uomo l’anticamera di una « cosa »…  Meglio nascondersi dunque, almeno fino a quando non è arrivata quella busta indirizzata a me con all’interno, su un foglio, la possibilità di un lavoro : un COLLOQUIO !

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Mi sono  lavato in fretta e furia, rasato, pettinato, ho indossato quel poco di biancheria ancora presentabile, calzini compresi e una sciarpa di lana. Dopo un breve sguardo allo specchio – Ce la farò? Non ce la farò ? – ho chiuso a chiave la porta e mi sono  intrufolato di straforo nel metrò incuenadomi come un’ombra dietro questa inconsapevole signora, finché non sono arrivato al boulevard de Magenta…

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Appena uscito dal Metro, le parole « lavoro temporaneo » si profilano come un faro davanti ai miei occhi… un secchio? un operaio ? Ma che dico? È un lavavetri ! Meglio che niente, il lavoro manuale tempra l’uomo… a meno che non mi mandino a lucidare un grattacielo…

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… potrei anche mettermi nel terziario o nella comunicazione o nella preparazione di eventi, o essere un grutier mobile, un macon, un grutier a tour, un ferrailleur, un coffreur bancheur, coffreur boiseur, traceur, geometre… Perché no ?

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Costeggio il Maif… La parola “Assicurazione” comincia a ronzare dentro la mia testa… “Prima o poi anch’io dovrò farmi un’assicurazione…”, è un po’ di tempo che non ci vedo più bene…

http://www.maif.fr/recrutement/alternance-cqp-1.html
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Ho un attacco d’ansia, un brivido di paura e di freddo mi gela la gola. E se non riesco a rispondere alle loro domande? Se scoprono che ho mentito? Non riesco più a camminare. Che ora è ? Non ho neanche una sigaretta. Forse potrei prendere un caffé a un euro e 20 centesimi… vediamo quanti  spiccioli ho, devo calmare  la mia agitazione…

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Dov’è un tabaccaio ? Questo maledetto boulevard abbonda di precari, ma ha solo cicche sporche sui marciapiedi… Ma guarda ! Io non posso fumare neanche una sigaretta per calmarmi e questa « bona » si diverte con la cigarette electronique !

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Buon dio, dove ho messo la lettera ? In tasca non c’è… nei pantaloni neanche e se l’ho persa? Maledizione, sono perduto, devo tornare indietro ! No, eccola ! È nella tasca interna… Madonna santa, ti ringrazio, fa che vada tutto bene… ormai ci manca poco. Che numero era ?

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Ecco, finalmente sono arrivato, mi stanno già facendo le feste : « Buon giorno, signore ! » Per un secondo mi sento il re del mondo… mi aggiusto il capelli, raddrizzo le spalle, emano un profondo sospiro e afferro deciso la maniglia della porta. Ma qualcosa non funziona: la porta è chiusa. Provo ancora. Niente da fare. Una donna si sbraccia dietro il vetro con un sorriso imbarazzato. Che cosa mi sta dicendo ? Mi sento gelare il sangue. Sono in SCIOPERO… forse posso ritornare la prossima settimana…
Mi sento male, la testa mi gira, non desidero altro che tornare nel mio antro come una bestia ferita a morte. Quante cicatrici decorano il mio corpo? troppe, ve l’assicuro… Corro sul marciapiede strattonando qualche passante, sfiorando le vetrine ingannevoli. Sono un cieco senza bastone.
“Psst !”
Qualcuno mi chiama. Un suono flautato e dolce.
“Che aspetti, bel moretto, entra e divertiti !” sussurra una voce dolcissima, stranamente familiare. La guardo esterrefatto, mentre una magnifica bocca rosso-lacca scocca un bacio verso di me.
“Eccomi, arrivo ! ” urlo infilandomi nella porta di vetro.

 Post scriptum : « Lavorare stanca » (Cesare Pavese)

« Labor omnia vicit, / Improbus et duris urgens in rebus egestas » (Virgilius, Georgiche, I, v.145)

“Tutto vince il lavoro accanito, e fra mille disagi l’urgente miseria” (Virgilio, Georgiche, I, 146-7)

“E che mestiere fai?” – “Il povero.

(Carlo Collodi, 1826-1890, Le avventure di Pinocchio, XII.)  Pinocchio risponde così a Mangiafuoco che gli ha chiesto il mestiere del padre.

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Claudia Patuzzi

Ci sono parole, piccolo vocabolario tascabile (poesie n.2)

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Il Canal Saint Martin (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Ci sono parole – piccolo vocabolario tascabile

Ovunque sola
ovunque straniera
ho compreso che le parole
come le pietre[1]
hanno il potere di abbattere
le lingue e le frontiere.

Quante parole cadono con fragore ?
Quante ondeggiano ancora nel vento ?
Quante parole tacciono, senza voce,
recluse nel cuore ?

Ci sono le parole-nave
veloci e leggere
che approdano sulla spiaggia dell’ « altro »
col sorriso di un ignoto marinaio[2]

Ci sono le parole-freccia
aguzze[3] come schegge di cristallo
che perforano lo schermo grigio
dell’ indifferenza e della rassegnazione.

Ci sono le parole-uccello
curiose e « vaghe »[4]
capaci di risuscitare la speranza
rinchiusa nella solitudine.

Ci sono le parole infantili
saltellanti come uno scoiattolo
che ci aiutano a ritrovare noi stessi
in un giardino perduto e incantato.[5]

Ci sono parole di sguincio rifrangenti
simili ai riflessi di uno specchio
prigioniere di misteriosi
labirinti e sogni.[6]

Ci sono le parole-onde
che attraversano gli ultimi rifugi
della storia, tutti gli inferni
e i cimiteri del mondo.

Ci sono le parole-fiore,
rosse come il sangue
degli innocenti,
che sbocciano sulle tombe
per ricordare l’ingiustizia.[7]

Ci sono le parole-rima
che raccontano ancora
senza annoiarci mai
le semplici parole :
« amore-fiore-cuore .» [8]

In fondo, per ultime,
ci sono le parole-vento
che volano minuscole nell’etere
in una bolla di sapone :
un folle volo.[9]

E per finire, nascoste in un angolo,
ci sono le parole inventate
non ancora trascritte
che premono sul guscio
come un pulcino nel nido.

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Qualcuno mi guarda (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Claudia Patuzzi

[1] Carlo Levi
[2] Vincenzo Consolo
[3] Albert Camus et Jean Paul Sartre
[4] Jacques Prévert et Giacomo Leopardi
[5] Italo Calvino
[6] Jorge Luis Borges
[7] Primo Levi
[8] Umberto Saba
[9] Dante Alighieri

TRADUZIONE IN FRANCESE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Utrillo (disegni n.3)

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Ecco il mio terzo disegno!

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Maurice Utrillo, disegno di Claudia Patuzzi (cliccare sull’immagine per ingrandirla)

Perché ho disegnato questo ritratto senza data ? Perché ho scelto Maurice Utrillo e non Van Gogh, il pittore preferito della mia infanzia tormentata dalla paura del buio ?  Non riesco a ricordarlo con esattezza.  Ero molto giovane allora. Sedici o diciassette anni al massimo.   Forse è stata quella piega incisa sulla guancia, i suoi occhi persi in un “oltre” indecifrabile o, piuttosto,  il ricordo di un suo quadro immerso nella neve, nel quartiere di Montmartre : una stradina in discesa, delle case, degli alberi, un silenzio ovattato…
Ma dove trovarlo?

Di una cosa sono ancora sicura. La mia passione per i volti, i ritratti, gli sguardi e il loro segreto.

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Claudia Patuzzi

L’armadio di Calvino I/III (dialoghi immaginari n.1)

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001_Piazza180campomarzioPersonaggi : Italo Calvino e Giacomo Leopardi.
È la primavera del 1985: siamo in un appartamento del centro di Roma, nei pressi del Pantheon, con una portafinestra che dà su una grande terrazza.  Un’altra finestra, più piccola, guarda una stradina laterale.  Sulla parete accanto alla finestra, vi sono tre tavoli con molti libri, giornali, una macchina da scrivere, una bottiglia d’acqua, un bicchiere, una sedia, una poltrona. Contro la parete una libreria piena di libri. Vicino alla porta, un grosso armadio.

Italo Calvino sta guardando la strada fuori della finestra, ma in realtà, non la vede.  In quel momento è ancora nella sua casa d’infanzia a San Remo. Una cosa confusa che sta correndo nel  giardino lussureggiante di Villa Meridiana verso il profilo austero di sua madre. Lei si volta, gli sorride per un istante. È il primo pomeriggio e lui sta fuggendo di nascosto diretto al cinema.  Ha tredici o sedici anni… A quei tempi si rifugiava nella sala semivuota con le gambe allungate sulla spalliera davanti per godere il film  e nutrire le sue fantasticherie nel mondo di Hollywood, di Jean Harlow, Myrna Loy e il cane Asta…

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Calvino si copre la fronte con la mano: d’inverno, quando usciva dal cinema osservava spaesato il buio di fuori, simile a un  confine tra due mondi diversi, uno reale e uno immaginario, oscillando tra i due, indeciso tra realtà e rêveries… “Ma a che serve ricordare? Solo a distrarmi dai miei doveri…”.Dopo un sospiro,  si allontana dalla finestra, chiude i vetri, ritorna al suo tavolo e beve dun fiato un bicchier d’acqua.
” …Ho ancora la malattia dello spettatore, sono ancora un magazzino di sensazioni cristallizzate in ricordi… e poi tutto è finito, è sopraggiunta la censura del ‘38 e la guerra… Ai tempi del cinema di San Remo non conoscevo ancora il fascino dei libri, della letteratura…” mormora tra sé, mentre apre un libro.
– Signor Calvino ?
Una voce sconosciuta, dolce come quella di un bambino, lo sta chiamando. La voce di chi? In casa, oltre lui, non c’è nessuno.
Calvino si volta. La porta della stanza è chiusa. Ascolta con attenzione. Nessun rumore. Con una mossa improvvisa si affaccia di nuovo la finestra e, per un attimo, crede di rivedere Parigi, lo square Chatillon, la Tour Montparnasse, un grattacielo… Il negozio del macellaio… Le riunioni dell’Oulipo… La magnifica biblioteca…
“Due città, Roma, Parigi… ma che sto dicendo? Con San Remo sono tre e con Torino sono quattro…e con New York sono cinque! In quante città può vivere un uomo? Al massimo due… Uno scrittore, invece, ne può avere tante quante ne può immaginare, segrete e invisibili…
– Psst !
– Chi è ?
Stavolta Calvino ha capito da dove viene quel suono : dal vecchio armadio di fianco alla porta. Si alza con circospezione. Apre un’anta e immerge la testa tra i cappotti, le giacche, i pantaloni e un vecchio ombrello. Quando ne esce, ha un lieve sorriso sulle labbra : – Che paura, per un momento ho creduto… Ma che sto fantasticando? dietro i vestiti e i cappotti, c’è solo un ammasso di panni sporchi per la lavanderia…
Sollevato, Calvino torna al suo tavolo, riprende la penna e un foglio : – Accidenti, queste “Lezioni americane” non finiscono mai…  pensa ad alta voce mentre finisce di scrivere cinque lettere – “ tezza” –la seconda parte di una parola lasciata a metà:  “esat-tezza”.
“Il fascino della doppia t è che si può spezzare, dividere…” pensa invaghito dalle sue città, dallo slancio dei grattacieli di New York, dalla scalette a picco di San Remo, dalla serietà rettilinea delle strade di Torino…
– Psst !

Stavolta Calvino ha un sobbalzo. Resta immobile per qualche istante, poi si dirige con passo deciso verso la finestra. Forse qualcuno lo sta chiamando dalla strada. Quando si affaccia viene irretito dal brusio di quella vita frenetica che continua a brulicare là sotto,  mentre lui deve assolutamente scrivere delle conferenze americane per il prossimo millennio… Per fuggire quella strana sensazione alza lo sguardo verso il cielo dove volano e s’intrecciano  tanti puntini grigi e bianchi,  ali e cinguettii.  Un quadro astratto, grigio e azzurro. Quando si risveglia dalle sue fantasticherie, guarda preoccupato l’orologio. « Devo ritornare al mio lavoro » mormora tra sé.
– Psst signor Calvino !
Stavolta non ha dubbi. Una voce lo ha chiamato per nome. Dopo un istante d’incertezza corre verso l’armadio. Quando apre la seconda anta il mucchio di vestiti sporchi si muove verso di lui dicendo :
– Ma come, non mi riconosce ? Sono Leopardi, quello dell’ESATTEZZA !

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– Leopardi ? Il conte Giacomo Leopardi, il grande poeta di Recanati ?
– Sì, proprio lui, quello della LEGGEREZZA, almeno secondo quanto avete scritto voi : «capace di  togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare ».
– Conte… che fate qui ? Com’è possibile ?
– Sì, lo so, sono morto da 148 anni, ma le assicuro che non puzzo. Leopardi si soffia il naso con un vecchio fazzoletto, poi riprende a parlare: Si faccia coraggio, non sono un incubo. Mi dia subito una sedia, sono tutto infreddolito!
Calvino gli porge una sedia. – Si accomodi. Vuole un bicchier d’acqua?
– Grazie, con piacere !
Calvino guarda il poeta allibito, senza parlare. Leopardi beve rumorosamente, si asciuga la bocca con il fazzoletto e dice : -Sono venuto a ringraziarla !
– Ringraziare me ?
– Per tutto quello che sta scrivendo sulla mia leggerezza, esattezza e rapidità, anche se devo confessarvi che zoppico.
– Ne sono onorato.
– Nessuno mi ha capito.
– Già. È difficile essere capiti veramente, è meglio tacere.
– Sempre il solito colle, la donzelletta che vien dalla campagna e la tiritera sulle mie malattie e il mio pessimismo. Nessuno ha avuto un temperamento più allegro di me. Terribile e awful è la potenza del riso, chi ha il coraggio di ridere, ha anche il coraggio di morire ! E adesso circolano pettegolezzi su me e quel povero Antonio Ranieri !
– Per un classico del vostro livello queste chiacchiere sono bazzecole! Voi amate troppo la vita e soprattutto avete l’ironia, un’ironia…
– Attenzione signor Calvino: un’ironia fantastica, come la vostra !
– Avete ragione: quando si resta scornati a questo mondo bisogna bilanciarsi, trovare un equilibrio, sempre più difficile, basato sul minimo possibile, sull’essenzialità. Direi di più: sul potere del riso, ma leggero, aereo e al tempo stesso reale e preciso come Lawrence Sterne… sussurra Calvino abbassando la voce.
– … e come quello di Ariosto!
– Quante coincidenze !
– E poi un giorno ci si risveglia, come me, pieni di acciacchi, davanti a un Inferno puzzolente, simile a un’enorme gruviera…
– …o in una città invisibile.
– …o nell’Asia, come il mio pastore errante ! Signor Calvino perché non venite con me nell’armadio, vi voglio presentare Ludovico Ariosto e il castello di Atlante…
– … e il castello dei destini incrociati ?
– A Recanati i contadini giocavano sempre a carte, urlando, e a volte si scannavano. Ma i tarocchi sono un’altra cosa. Nascondono un segreto geometrico e un mistero inquietante… brr… potete chiudere la finestra? Qui sento freddo!
Calvino chiude la finestra, ma, quando si volta, Leopardi è sparito. Corre verso l’armadio. Guarda dappertutto. Ci sono solo i suoi vestiti, l’impermeabile e i soliti panni da lavare. L’armadio è vuoto. Niente che sia umano o quasi-umano…

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Apre di nuovo la finestra per vedere se, per caso, il conte non fosse uscito dalla porta d’ingresso. Sul marciapiede, lo scalpiccio dei passanti è coperto dalle voci e dal grido degli uccelli che riempiono il cielo azzurro dei loro voli improvvisi e bizzarri, simili a girandole.
« Mio dio ! », pensa con un tuffo al cuore, « che diavolo sto facendo? Non sono nel XVIII secolo, ma nel XX ! Non sono né a Parigi, né a Recanati, ma a Campo Marzio, a Roma !» Intanto Leopardi, con passi veloci, ha già raggiunto il Pantheon. I suoi Classici.

Claudia Patuzzi

Il dittatore (disegni n.2)

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Il dittatore, disegno di Claudia Patuzzi (cliccare sul disegno per ingrandirlo)

– Buon giorno, signor padre
– Buon giorno, figlio.
– Sta ella bene ?
– Compatibilmente agli anni e ai dispiaceri.
– Godo di vederla valente .
– Così voglio dire di te, Cosimo. Ho sentito che ti adoperi pel vantaggio comune.
– Ho a cuore la salvaguardia delle foreste dove vivo, signor padre.
– Sai che un tratto del bosco è di nostra proprietà, ereditato dalla tua povera nonna Elisabetta buonanima ?
– Sì, signor padre. In località Belrìo. Vi crescono trenta castagni,  otto pini e un acero.(…) È appunto come membro di famiglia proprieteria di boschi che ho voluto consociare tutti gli interessati  a conservarli.
– … Mi dicono  sia un’associazione di fornai, ortolani e maniscalchi.
– Anche, signor padre. Di tutte le professioni purché oneste.
– Tu sai che potresti comandare alla nobiltà vassalla col titolo di duca ?
– So che quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano ; e questo è comandare.
– E per comandare, oggigiorno, s’usa star sugli alberi ? aveva sulla punta della lingua il barone. Ma a che  valeva tirar ancora in ballo  quella storia ?  Sospirò assorto nei suoi pensieri. Poi si sciolse la cinta  cui era appesa la spada. – Hai diciott’anni… È tempo che ti si consideri un adulto… Io non avrò più molto da vivere… –  e reggeva la spada piatta con le due mani. – Ricordi di essere barone di Rondò ?
– Sì, signor padre, ricordo il moi nome.
– Vorrai essere degno del nome e del titolo che porti ?
– Cercherò  d’esser più degno che posso del nome d’uomo, e lo sarò così d’ogni suo attributo.
– Tieni questa spada, la mia spada -.  S’alzò sulle staffe, Cosimo s’abbassò dal ramo e il Barone arrivò a cingergliela.
– Grazie, signor padre… Le prometto che  ne farò buon uso.
– Addio, figlio mio…
Il Barone voltò il cavallo, diede un breve tratto di redini, cavalcò via lentamente.
Cosimo stette un momento a pensare  se non doveva fargli il saluto con la spada, poi rifletté che il padre glie l’aveva data perché gli servisse da difesa, non per  fare delle mosse da parata,  e la tenne nel fodero.

(Italo Calvino, Il Barone rampante, Einaudi Editori, Torino, 1957, 1965, capitolo XIV)

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“Anche sul trono più bello del mondo, non si sta seduti che sul proprio culo . “

( Michel de Montaigne, 1533-1592, Essais, III, 13 )

Claudia Patuzzi